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Non ci sono dubbi. Su un punto il Jobs Act sta funzionando ed è sul fronte della flessibilità in entrata e in uscita dal mondo del lavoro. Se da una parte, infatti, gli sgravi fiscali previsti per le aziende che assumono a tempo indeterminato hanno portato all'ingresso di 787 mila persone da gennaio a luglio 2015, dall'altro la riforma del lavoro del governo Renzi ha favorito anche l'uscita di personale: “E in questo caso la flessibilità ha funzionato poco, perché il mercato del lavoro italiano è ancora troppo rigido e ricollocarsi non è facile, specie per la popolazione degli over 45 meno professionalizzati”, spiega Silvano Campioni, segretario organizzativo Filcams di Milano e componente della Segreteria regionale lombarda. “Inoltre”, aggiunge, “il perdurare della situazione di crisi economica non aiuta certo il ricollocamento di questo target di lavoratori”.

Hanno perso posti di lavoro più donne o uomini?
Non è tanto una questione di genere. Deflagrante è l'unione età senior e bassa professionalità. Per i lavoratori con skills importanti qualche chance in più esiste. Certo non è facile per nessuno.
I sindacati in che modo si stanno muovendo per favorire la ricollocazione di personale in uscita dalle aziende?
In genere come prima cosa viene valutata la possibilità di ricollocazione del lavoratore in azienda o all'interno del gruppo nel caso in cui la società ne faccia parte di uno. Sul piano contrattuale cerchiamo anche di ricollocare il lavoratore sul territorio tramite i contatti che i sindacati hanno con le aziende locali presenti, ma è una pratica sporadica. Poi ci sono gli enti bilaterali che, per ora, svolgono una azione ancora marginale, anche se importante.
Ma in questo contesto di crisi i sindacati si stanno sforzando anche di fare un lavoro preventivo spingendo molto sulla leva della formazione continua in azienda, per mettere il lavoratore nelle condizioni di acquisire nuovi skills che lo mettano nelle condizioni, eventualmente, di ricollocarsi più facilmente.
Non proponete mai l'outplacement nelle aziende che si trovano a dover effettuare tagli di personale?
A me è capitato sia di proporlo sia di trovarmi in una situazione in cui mi venisse proposto dalle aziende, specie quando operavo nel settore dell'industria alimentare. E devo dire che avevamo ottenuto buoni risultati soprattutto per quanto riguarda l'outplacement collettivo.
Che tipo di riscontro ha avuto da parte di aziende e lavoratori?
Un po' di diffidenza da entrambe le parti.
Perché?
Da una parte le aziende lo vivono come una ulteriore difficoltà perché preferirebbero soluzioni più drastiche e che impattino meno sui costi. Dall'altra i lavoratori fanno resistenza perché conoscono poco l'outplacement, quindi sono scettici e restano conviti che in Italia quello che conta per trovare un nuovo lavoro sia il passaparola e avere amicizie importanti. Per questo spesso preferiscono monetizzare e piuttosto che seguire un percorso di outplacement, propongono all'azienda di avere la cifra corrispettiva in busta paga come incentivo all'esodo, che a ricollocarsi ci pensano da soli. Salvo poi avere scarsi risultati.
Cosa si potrebbe fare per convincerli del contrario?
In base alla mia esperienza, credo che la strada giusta da seguire per diffondere l'outplacement nel nostro Paese sia quella della contrattazione.
Può spiegare meglio?
A me è capitato, per esempio, di proporre l'outplacement ponendo all'azienda delle condizioni particolari sul ricollocamento (sul luogo di lavoro, che non doveva superare una certa distanza da quello precedente o sul ruolo che il lavoratore andava a ricoprire etc.). Questo ha funzionato da garanzia per il lavoratore e favorito così l'opera di convincimento.
Resta però il fatto che non tutti i sindacati sono per questo strumento di ricollocazione. Come mai?
L'esperienza personale e il settore in cui si opera in questo caso pesa molto. È più facile parlare di outplacement in settori in cui la mobilità è più elevata e meno in quelli dove il rapporto di lavoro è più tradizionale. E poi da parte dei sindacati, in genere, c'è sempre la paura che affrontare questi temi significhi addossare sull' azienda responsabilità che potrebbero in qualche modo favorire la fuoriuscita di lavoratori. Per questo si preferiscono approcci più tradizionali.
Eppure in una situazione come quella attuale con un mercato del lavoro sempre più liquido, l'outplacement potrebbe rappresentare un ottimo strumento di ricollocazione...
Sì, sono convinto che potrebbe dare un valido contributo. Ma ancora oggi non tutti i sindacati lo conoscono. Molti poi evitano di approfondire l'argomento e lo classificano tra le cose poco utili in partenza. Invece se affrontato bene e con una certa libertà mentale dà buoni risultati. Per questo credo che gli enti bilaterali possano assumere un ruolo importante in questo campo, proponendo alle parti sociali anche il servizio di outplacement oltre a quelli di cui già si occupa, come la formazione professionale, la sicurezza sul lavoro, l'erogazione di prestazioni di welfare aggiuntivo a sostegno del reddito e la conciliazione.
Quindi bisognerebbe istituire un rapporto continuo tra enti bilaterali e società che fanno outplacement?
Esatto, credo che questo possa aiutare la diffusione di questo strumento di ricollocazione anche in Italia, come del resto è già avvenuto negli altri Paesi europei.