Bisogno e paura contro desiderio e progettualità. Monetizzare l’uscita o ricorrere all’Outplacement. Si possono sinteticamente rappresentare con questa dicotomia i sentimenti all’indomani della perdita del posto di lavoro. Da una parte la predilezione per la consistenza dell’indennizzo economico, mossa appunto dalla paura e dal bisogno di compensare nell’immediato una situazione di disagio. Dall’altra il valore di un servizio costruttivo di accompagnamento alla ricollocazione, che risponde invece al desiderio e alla progettualità. Guardando al futuro e alla rigenerazione di prospettiva occupazionale. Il primo ha l’effetto spesso di solo palliativo e di temporaneo lenimento del disagio occupazionale, l’altro ha l’efficacia che porta alla soluzione del problema occupazionale. «Sono due cose diverse, entrambe utili, le compensazioni alla perdita del posto di lavoro, ma la seconda, il servizio di outplacement, è di gran lunga più importante nel programma di vita lavorativa della persona», spiega Giorgio Paladin, A.D. di Uomo e Impresa, società di consulenza associata ad Aiso.
Perché conviene riprogettarsi un futuro lavorativo
È purtroppo nelle cose, però, che nell’impasse emotivo della perdita del lavoro i diretti interessati molto spesso non tengono conto di valutazioni più razionali e lungimiranti, e preferiscono semplicemente incassare di più dall’azienda da cui escono. Non valutando che il servizio di outplacement ha un valore sostanziale ben più alto rispetto al suo corrispettivo monetario. Stiamo parlando di ciò che nel gergo delle società di outplacement è chiamato “monetizzazione dell’outplacement” e viene con altrettanta consuetudine stigmatizzato come brutta pratica nell’ambito degli accordi di risoluzione del rapporto di lavoro. Per giunta, la monetizzazione dell’outplacement può essere considerata una pratica intellettualmente sbagliata da parte dell’azienda, che in tal modo abdica alle prerogative etico-sociali - che le sarebbero proprie - di facilitare il rapido rilancio professionale dell’ex-collaboratore.
Dal punto di vista del lavoratore, il suo comportamento “rinunciatario” può essere considerato poco - o per niente - prudente, in ragione del fatto che egli semplicemente rinuncia alla migliore “assicurazione” sul suo futuro professionale (oltretutto con “premio assicurativo” pagato dall’azienda) in un mercato del lavoro sempre più complesso ed esclusivo.
No al fai-da-te
Troppo spesso succede infatti che - soprattutto le figure dirigenziali - ritengano di potersi “arrangiare” nel processo di ricollocazione. Sono gli stessi che dopo qualche tempo cercano un tardivo aiuto, oramai in situazione di personale frustrazione e in condizione di effettiva difficoltà emotiva e di carenza di rinnovamento professionale determinate dal lungo periodo di disoccupazione e inattività.
È provato che i tempi di ricollocazione sono tanto più brevi quanto più è tempestiva l’attivazione di un servizio di outplacement già dal momento dell’uscita della persona dall’azienda. Questo perché l’energia che fino al giorno precedente il soggetto metteva nel proprio lavoro, fin da subito è impiegata nella costruzione di un futuro possibile, progettando e perseguendo il proprio obiettivo professionale in sintonia e sinergia con l’operatore di outplacement.