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Gli ultimi dati sull'occupazione diffusi dall'Inps confortano e danno una boccata di ossigeno dopo anni di pessimismo e di numeri in discesa. Secondo l’Istituto, nei primi tre mesi del 2015 le nuove assunzioni a tempo indeterminato sono state, infatti, 470.785, con un incremento annuo del 24,1%, mentre le trasformazioni di rapporti a termine e apprendisti sono state 149.041 (+5% su anno). In salita anche la quota di assunzioni con rapporti stabili, che ha toccato il 41,84% dal 36,61% del primo trimestre 2014.

Ma c'è anche un lato B del mercato del lavoro. Già perché se da una parte le agevolazioni fiscali previste dal Jobs Act hanno dato una spinta all'occupazione, dall'altra la flessibilità in uscita prevista dalla legge Fornero con l'introduzione del licenziamento per motivi economici, produce ogni giorno centinaia di disoccupati. Basta andare a fare un giro nelle sedi delle Direzioni territoriali del lavoro presenti in ogni regione per rendersene conto.
E' proprio qui, infatti, che si firmano le conciliazioni tra il datore di lavoro e il lavoratore che pongono fine, consensualmente, al rapporto tra le due parti in cambio di una buona uscita. Creando di fatto disoccupati a norma di legge.
“Le conciliazioni nell'ambito del diritto del lavoro sono sempre state preponderanti”, spiega Chiara Vannoni, avvocato del lavoro dello studio Rosiello di Milano. “Basti dire che mediamente rappresentano l’80 - 90 % del business di uno studio legale. Ma è vero che dal 2013 a oggi quelle legate ai licenziamenti sono aumentate, anche se è difficile dire di quanto”.

Domanda: Un' idea indicativa in termini numerici?
Risposta:
Nell'ultimo anno siamo nell'ordine di 6.100 ricorsi presentati solo a Milano. In termini di ricorsi depositati, il dato è rimasto sostanzialmente analogo a quello di un anno fa. Di questi, la maggior parte - almeno il 60% - sono legati all’impugnazione per licenziamenti dovuti alla soppressione del ruolo o licenziamenti economici in genere. 
Lo strumento della conciliazione stragiudiziale, a cui si ricorre prima dell’avvio di una controversia, è spesso usato anche per risolvere consensualmente un rapporto di lavoro con altre problematiche, come l'impossibilità di mantenere la propria occupazione perché c'è stato un demansionamento o una discriminazione o un trasferimento a cui non si può dare seguito.
 Va detto, però che il dato globale di conciliazioni tiene conto sia di quelle precedenti a una causa sia di quelle effettuate di fronte al giudice: per questo il dato complessivo è così elevato.
D: Azioni che potrebbero nascondere la volontà dell'azienda di mettere il lavoratore con le spalle al muro...
R:
Spesso il sospetto c'è. Poi è vero che si tratta di un'uscita incentivata, ma comunque si tratta di posti di lavoro persi che non vanno ignorati.
D: Intorno a che cifra si aggirano gli incentivi?
R: La forbice prevista dalla riforma Fornero per il risarcimento legato ai licenziamenti economici va dalle 12 alle 24 mensilità. Ma oggi in media per le aziende con più di 15 dipendenti si va da poco meno di 12 a poco più di 15 mensilità lorde. Per quelle con meno lavoratori le conciliazioni vanno 2,5 alle sei mensilità lorde.

D: Cifre che garantiscono all'azienda una spesa prestabilita per chiudere il rapporto di lavoro con un dipendente...
R:
Anche per questo la percezione è che lo strumento del licenziamento economico, previsto dalla Legge Fornero, sia stato ampiamente usato dalle aziende in questi ultimi anni. E, talvolta, anche con modalità che potevano avere un effetto discriminatorio.
D: Cosa intende dire esattamente?
R: Che troppo spesso le imprese hanno usato questo strumento per sostituire il lavoratore, per fare turnover aziendale. Non a caso i target più coinvolti da questo genere di azioni sono le donne nell'età della maternità e i lavoratori con un livello di professionalità medio alto come quadri o alti livelli impiegatizi. Con una particolare incidenza sui lavoratori senior. Questo vuol dire che nel ricambio si va a penalizzare la professionalità che è quella che costa di più.

D: Quanti lavoratori di questi riescono a ricollocarsi?
R: Difficile dare un numero. Possiamo dire che attualmente, vuoi perché è stato attivato il contratto a tutele crescenti, vuoi perché sono previsti gli sgravi contributivi, il mercato del lavoro dopo anni di fiacca, si sta effettivamente muovendo un poco. In base alla nostra esperienza, sappiamo poi di lavoratori che in un contesto di conciliazione hanno avuto accesso a una consulenza di outplacement e che si sono ricollocati nell'arco di sei mesi. 
In generale la maggior parte di quelli che abbiamo seguito noi come studio legale è riuscita a ricollocarsi spesso con un progetto di auto imprenditorialità.

D: Nessuno è rientrato in azienda?
R: Pochi lo hanno fatto con un contratto a tempo indeterminato. Dalla mia esperienza in maggioranza le donne si sono riconvertite diventando imprenditrici, gli uomini tendenzialmente hanno cercato e in parte ritrovato una occupazione dipendente, magari con un contratto a termine o con forme di precarietà.
D: E’ un fenomeno solo italiano o è in crescita anche in altri paesi europei?
R: Direi di no, è una tendenza europea. Colleghi francesi e tedeschi confermano infatti che le controversie di lavoro si risolvono nel 90% dei casi con una conciliazione; allo stesso modo, però, aumentano in tutta Europa le cause per discriminazione (cioè, per licenziamento discriminatorio).
D: Quali sono i rischi di questa tendenza per il mercato del lavoro nazionale?
R: Che ci sia una ricaduta in termini di professionalità del lavoratore perché a volte succede che un impiegato qualificato di 40-50 anni per potersi ricollocare debba accettare un inquadramento di livello inferiore rispetto al precedente. Se si va avanti in questo modo il rischio è quello di un appiattimento della professionalità e quindi anche della retribuzione, che alla lunga potrebbe portare a un impoverimento generale del mercato del lavoro. Perché anche le aziende che scelgono questa strada in nome del taglio dei costi, in realtà poi hanno un ritorno minore in termini di business. 

D:Tutta colpa della Fornero?
R: No, anche della modifica della disciplina delle mansioni prevista dal Jobs Act. 
D: Cioè?
R: Uno dei decreti in corso di approvazione ha come oggetto la modifica dell'art 2103 del codice civile che fino a oggi ha tutelato il lavoratore dall'ipotesi di demansionamento, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di affidare al dipendente mansioni inferiori a quelle ricoperte fino a quel momento.
 Mansioni che potevano essere modificate, ma il loro contenuto doveva restare equivalente. 
Con la revisione di questo articolo diventa un po' più agevole per il datore di lavoro modificare in senso peggiorativo le mansioni del dipendente. Appellandosi alla riorganizzazione dei processi produttivi, l'imprenditore potrà, infatti, cambiare in senso peggiorativo le mansioni del lavoratore. Questa procedura può diventare senza dubbio uno strumento di grande flessibilità interna per il management di un'azienda, ma non certo per il lavoratore, che se non ha alternative si vedrà costretto ad accettare il demansionamento.

D: La conseguenza?
R: Un peggioramento del suo cv e delle sue potenzialità di riciclarsi con successo sul mercato. Questo provvedimento può produrre effetti a lunga durata molto preoccupanti.

D: In nome della crisi è lecito fare tutto insomma?
R:
L’impressione è quella, in effetti, con una standardizzazione verso il basso. Ovviamente, gli strumenti di tutela rimangono, anzi sarà importante leggere meglio tra le righe di un qualunque provvedimento datoriale per distinguere la genuinità di una riorganizzazione dall’effetto discriminatorio che potrebbe produrre.